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indcar autobus spagnoli

di Roberto Sommariva

Ospite dell’amico Gael Queralt, Ceo di Indcar, ho trascorso due giorni ad Arbùcies (Spagna), un piccolo paese di 6.800 anime che ha costruito le proprie case (e fabbriche) facendosi largo tra gli alberi che compongono gli infiniti boschi di questa zona della Catalunia, una terra aspra e verde a 43 chilometri da Girona e 86 da Barcellona. Arbùcies è un paese silenzioso e deserto che rappresenta uno degli avamposti della produzione di autobus in Spagna. Produzione che, a differenza di quello che è accaduto in Italia, resiste ancora.

Autobus made in Spain, indotto e capitale umano

La produzione ‘made in Spain’ insiste non solo in questa zona ma anche nei Paesi Baschi (vedi, tra gli altri, Irizar) e in Galizia (Castrosua). Tutte produzioni che hanno un forte riverbero sull’indotto e sulla creazione di quello che potremmo definire: il capitale umano. Cioè la creazione di quelle competenze che diventano valore in un sistema produttivo, come quello dell’autobus, che poggia sì su un profilo industriale ma che ha una forte componente di manodopera. Competenze che l’Italia ha perso quasi completamente nel corso degli ultimi 15-20 anni.

Un distretto per quattro costruttori

La zona che ho visitato è un fazzoletto di terra in cui si contano ben quattro costruttori di autobus: Indcar, Beulas, Ayats e Noge bus. In Italia si parlerebbe di ‘distretto industriale’ quello che Romano Prodi in un libro del 1966 descriveva come quel: «gruppo di imprese» solitamente di piccola e media dimensione che «impegnano processi produttivi ad alto impegno umano ubicate in un ambito territoriale circoscritto e storicamente determinato» e specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e «integrate mediante una rete complessa». Una frase, forse un po’ lunga articolata e leziosa, che fotografa al meglio la zona di Arbùcies.

Indcar capostipite

Le quattro aziende citate non hanno relazioni industriali di interconnessione se non a livello di associazioni territoriali. In alcuni casi, per vicende storiche, i rapporti sono tesi come quelli di fratelli che prendono strade differenti. Perché fratelli, alla fine, un po’ lo sono. Beulas, Ayats e Noge bus sono infatti tutte aziende nate per gemmazione da Indcar, l’azienda che ha alle spalle la storia più lunga e che ha creato una generazione di imprenditori capaci, negli anni, di avviare proprie aziende.

L’importanza dell’export

Le quattro aziende di Arbùcies sono molto diverse tra loro. Beulas è la più piccola con una produzione contenuta, molto specializzata, di qualità e focalizzata sul coach. È un’azienda famigliare, come le altre del resto, dove però si fatica a vedere un vero cambio generazionale al vertice. Noge bus, dopo le mille peripezie è tornata a produrre. Il piazzale antistante lo stabilimento è ingolfato di mezzi destinati al mercato interno. Tutta diversa le storie di Ayatz e Indcar. La prima ha avviato la produzione anche in Messico dove ha saputo ritagliarsi importanti quote di mercato. Interessanti anche i volumi destinati al quadrante europeo così come la spinta verso l’innovazione (il due piani elettrico visto a Fiaa rappresenta una bella sfida). Sulla stessa linea, ma su segmenti di mercato diversi, è Indcar che oltre a produrre ad Arbùcies ha aperto uno stabilimento in Romania. L’azienda guidata da Gael Queralt realizza circa 500 mini/midibus all’anno, è presente direttamente in Spagna, Francia e in Italia e ha relazioni commerciali con i Paesi del centro-nord Europa. Nell’intervista rilasciata ad Autobus, che verrà presto pubblicata sul web e sulla rivista, Gael Queralt tratteggia un’azienda rivolta verso l’innovazione e lo sviluppo di nuovi prodotti ad alto contenuto tecnologico.

Un sistema che tifa per l’impresa

Quello che leggerete di seguito non vuole essere certo un discorso anti-sindacale o un inno all’edificazione selvaggia. Ma è indubbio che in Spagna, oltre a una politica industriale di supporto, c’è un sistema che garantisce alle aziende una visione a medio e lungo termine. In Indcar, per esempio, grazie a un accordo sindacale, le maestranze lavorano dalle 6 del mattino alle 14 del pomeriggio (con tre pause). Con una comunicazione, inviata per tempo, l’azienda può richiedere ai propri dipendenti di lavorare più ore o di sospendere temporaneamente la produzione così da assecondare al meglio le esigenze di mercato (la concertazione in Italia non avrebbe prodotto questo risultato). Ma l’operaio in Indcar non è un elemento passivo del ciclo produttivo. L’azienda infatti coinvolge di continuo le maestranze informandole periodicamente sull’andamento e sulle strategie. Scelta che determina un diverso rapporto imprenditore-dipendente ed ha una valenza importante sulla qualità dei manufatti prodotti. Ma c’è un altro elemento che mi ha colpito. La sede operativa della Indcar non è costituita da un corpo unico ma presenta diversi elementi comunicanti tra loro e dislocati su livelli differenti (siamo in montagna) realizzati modificando il profilo naturale. Un progetto di questo tipo in Italia incontrerebbe così tante barriere da far desistere anche l’imprenditore più determinato. Ne sono certo.

L’Italia dei piccoli

E in Italia? Oltre al gruppo IIA, alla ricerca di un assetto, a Rampini, concentrato nella nicchia dei ‘corti’ a pianale ribassato, a Iveco che a Brescia ha da poco avviato la produzione dei Daily Tourys, in Italia sono rimasti cinque piccoli costruttori: Barbi, Tomassini, Newcar (vedi Hitech bus), Sitcar e D’Auria. Piccole realtà, molto specializzate che in qualche caso esprimono grande qualità. Eppure incapaci di creare una rete, di fare sistema e di puntare il dito (con determinazione) sui mercati esteri.

Non solo flessibilità

Sarebbe troppo facile concludere dicendo che la flessibilità è l’unico elemento che ha decretato il successo del made in Spain e affossato, di contro, il made in Italy. Sicuramente la politica ha grandi responsabilità e la burocrazia ha appesantito lo slancio di qualche imprenditore. Ma vorrei ricordare che le produzioni spagnole non sono state sostenute dalla domanda interna (sino a tre anni fa il mercato italiano era più grande di quello spagnolo) ma dall’export e che la media dell’anzianità del parco circolante spagnolo è pressoché simile alla nostra, cioè ben al di sopra dei dieci anni. Il problema è culturale e la nostra classe imprenditoriale dovrebbe fare autocritica. Per una volta.

 

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